Nella serata in cui Napoli misura il vuoto maradoniano, Lorenzo Insigne segna con un gesto maradoniano: nessun paragone, solo evocazione. Segnare su punizione riporta agli anni Ottanta, quando tutte le squadre avevano qualcuno in grado di tirarle con una alta probabilità di fare gol. La punizione è uno dei modi più alti di mettere il pallone in porta, e, ovviamente, Diego Armando Maradona ha riscritto il modo di tirarle, segnandole per sempre. Tutti abbiamo le sue punizioni nella memoria quando ne vediamo una, a Napoli, poi, le punizioni di Diego sono gioia su gioia che sfida le leggi della fisica. Quella che mette a segno Insigne è diversa, è quasi a foglia morta, contiene una malinconia da Juliette Gréco, evoca, sfugge e se ne va nell’angolo di Antonio Mirante, divenendo la parabola estrema, l’istante in cui il desiderio di ricordare Maradona incontra uno dei suoi gesti. È scritto, deve accadere. Si è assentato il dio del calcio, che il suo spirito cali sul piede di un calciatore che ha una scheggia maradoniana è il minimo. E poi c’è il gioco, e sembra di veder ridere Diego, perché Insigne tira col destro, un piede che Maradona ha usato come un Sancho Panza: promettendogli grandi cose senza mai dargliele. Però questo attimo annulla tutto, il gioco ci riporta a lui, come se dovesse ritornare da un momento all’altro, in una delle immense attese alle quali ha condannato il Napoli, per poi ripagarlo con la purezza dei suoi gesti. Tutto si tiene: segna Messi, e in piccolo, ma non in modo scalcagnato stavolta segna anche Insigne. Barcellona chiama, Napoli risponde avrebbe detto Luigi Necco che tante volte c’ha omerizzato con l’aggiunta della lezione di Totò i gol di Maradona. Il soldatino Insigne segna, evoca e poi ringrazia baciando la maglia a strisce, come quella della Selecciòn de fútbol de Argentina, con la quale gioca il Napoli.
Non era una partita ma una cerimonia, dove niente è andato storto, il Napoli doveva vincere ed ha vinto, Insigne doveva segnare ed ha segnato e poi Ruiz, Mertens e Politano han evocato in qualche modo anche loro Maradona, si sono lasciati possedere dal suo spirito. Ma la punizione è dove si condensa l’intera esperienza maradoniana, nel superamento della barriera e nel saper rendere irraggiungibile il pallone al portiere, Insigne l’ha fatto in modo veloce, senza morbidezza, doveva essere un grido, secco, una sola parola, provate a riguardare il tiro di Insigne e a dire Diego, è quello, è il nome che più abbiamo masticano in questi giorni e negli anni precedenti. Dovete dirlo come il professore Humbert Humbert diceva Lo-li-ta, mentre Insigne calcia: Di-e-gol, settare la pronuncia del nome sul tempo del tiro, aggiungere lacrime in quantità e mescolare. Perché la punizione era l’unico flirt possibile col mito e il modo migliore per ricordarlo, creando una implicazione sentimental-calcistica, attraverso la palla, ovvio. C’è davvero tutto nella punizione di Insigne: gli abissi dionisiaci, l’esperienza dello sguardo, il misticismo causato dall’estetismo e il lunghissimo immobile istante in cui ogni cosa si ferma, un respiro solo, un solo pensiero, una sola direzione, e dopo il gol, col ritorno alla normalità. Come la corona di Bruno Conti ai quartieri spagnoli, il lumino di Corrado Ferlaino, l’omaggio degli All Blacks, la lettera d’amore di Macron, il desiderio di non giocare del Boca, il murale in Siria, la emme a centrocampo degli uomini del Marsiglia, e milioni e milioni di altri gesti che diventano uno solo incarnandosi nel ragazzino argentino che corre dietro al carro funebre senza sapere bene cosa e come fare.