Dove saranno tutti coloro che all’indomani della semifinale di andata di Coppa Italia con l’Atalanta esultavano per il pareggio senza reti asserendo che era stato un furbacchione Gattuso a farsi due conti in modo tale da andare a Bergamo con la pancia già piena di ben due risultati disponibili? «Possiamo sia vincere che pareggiare», affermavano tutti soddisfatti dopo aver visto la propria squadra difendere a spada tratta la propria area di rigore manco fosse il tesoro di famiglia e cioè la cassaforte con le catenine d’oro di battesimi e comunioni. A questo punto, dove essi siano non importa.
Quello che importa è che i conti di Gattuso si sono rivelati sbagliati. E però se la matematica non è un’opinione non lo è nemmeno la scienza politica. Se Machiavelli diceva che per sperare di arrivare al bersaglio bisogna mirare assai più in alto, per sperare di passare il turno e arrivare in finale anche Gattuso doveva mirare più in alto. Non sperare di pareggiare. Vincere doveva essere non solo sulla carta ma anche nella testa dei suoi uomini l’unico risultato possibile.
Ed evidentemente non è stato così dal momento che dopo meno di 20’ gli azzurri erano già sotto di due gol. A poco, ormai, vale sollevare a mo’ di scudi tra Covid e infortuni le assenze. Troppi errori individuali alleviano persino l’inevitabile responsabilità omnium del tecnico. Il Napoli non è più una squadra. Il Napoli ormai è un gruppo di persone che per tutta una serie di ragioni si trovano a condividere lo stesso posto di lavoro. Ma come in un call center a provvigione, ognuno pensa a sé. E intanto tra i tifosi una domanda sorge legittima: ma invece di rispettarla così tanto l’Atalanta non potevamo essere pure noi nu poco scustumat?