È veramente come un lungo addio. Persino estenuante. Anche se sono le parole di Richard Chandler a dirlo meglio: Arrivederci, amigo. De Laurentiis ce l’ha fatta ad ammettere che è finita, sia pure con fatica, dopo che Spalletti lo ha solo sussurrato e Giuntoli, saggiamente, lo ha lasciato intuire. Dries Mertens ancora non ci riesce. Resta muto, triste e solitario, forse sperando che non sia vero, forse illudendosi che qualcosa ancora potrà succedere. Come Kate, la moglie che scrive ancora Napoli, amore della mia vita. Cala il sipario, ma il game over risale al giorno della mail del 4 giugno con la richiesta (unica) da 8 milioni di euro fatta recapitare dal suo studio legale, Stirr Associates. Il momento preciso in cui la cortina di ferro che si è alzata. Ma forse tutto era compiuto persino il pomeriggio di La Spezia, con Dries che non se l’è sentita di salutare i suoi tifosi, di fare un giro di campo, perché in cuor suo sperava che il destino non fosse già scritto. Ci riuscì, invece, Lorenzo Insigne, che già aveva avuto il suo tributo la domenica prima, con lo stadio in piedi a omaggiarlo e lui che non riuscì a nascondere le lacrime e le emozioni. E che ieri notte ha iniziato la sua seconda vita, a Toronto, con una maglia rossa e un colpo di tacco che ha regalato il 4-0 ai canadesi. Lui, Lorenzo, padrone del suo futuro fin da ottobre, quando incontrò nel centro di Napoli, i proprietari del Toronto e i big della Mls. L’altro, Dries, in balìa delle onde e dei sentimenti è rimasto bloccato, illudendosi.
3.316 giorni sono passati da quel sì: era il 24 giugno del 2013, quando arrivò l’annuncio del suo ingaggio. C’era Benitez in panchina e il piccolo belga arrivò per fare la riserva di Insigne: «Preferisco la fascia sinistra», ammise. Non fu amore a prima vista tra lui e i tifosi: e neppure tra lui e Rafone. E lo stesso fu con Sarri, per cui era una specie di sesto uomo, la prima riserva da gettare in campo. Non è stato subito una leggenda, ci ha messo un po’ di tempo per diventarlo: il primo anno con Sarri giocò titolare in A appena sei volte. Servirono i gol in serie che riuscì a realizzare quando andò via Higuain (e Milik ruppe i crociati), per quella folle intuizione di Sarri e del suo vice Calzona di inventarlo falso nove a consegnarlo nell’Olimpo degli dei. Una illuminazione che gli ha cambiato l’esistenza. Ad aprile 2018, con il Frosinone, eguaglia i gol di Maradona. Il giorno del compleanno del Pibe, Mertens gli scrive: «Scusa se ho fatto più gol di te, resti tu il più importante».
Si allena da solo, in questi giorni, a Lovanio, Mertens. Mentre Insigne, dopo l’esordio, si prepara alla trasferta a Vancouver. È un re che non ce l’ha fatta a difendere il suo regno, Dries, ma che a Napoli tornerà nei prossimi giorni, perché ha ancora un bel po’ di cose da sistemare. E avrà sempre la corona in testa. Nessuno gliela toglierà: «Non doveva finire così», scrivono sui social. «Perché questo video solo adesso?», accusano alcuni tifosi travolti dall’amarezza di chi non ha voluto capire già prima quello che era ormai chiaro da qualche settimana. E si inserisce pure Faouzi Ghoulam: «Sei la storia di questo club. Peccato finisca così, non lo meritavi fratello». Avrebbe potuto accettare la proposta di De Laurentiis. Ma no, non sarebbe stato giusto. Restare come riserva, senza essere al centro del progetto. Scherziamo? Dries sapeva bene che il rapporto non era più felice. E non c’entra nulla l’ammutinamento, sennò il Napoli non avrebbe rinnovato, in pieno lockdown, per altri due anni. L’addio di Mertens e quello di Insigne chiudono un ciclo. È l’anno zero, è il sipario sui ricordi e sui sentimenti. È la fine del Napoli di Sarri, quello delle meraviglie: non ne è rimasta traccia. 148 gol in 397 partite, per il belga; 122 gol in 433 partite, per il napoletano. Primo e secondo marcatore della storia azzurra che vanno via nella stessa estate del tormento e della malinconia. Forse perché solo a Napoli i campioni mettono quasi radice. Prepara un saluto anche Mertens, aspetta ancora qualche ora. Forse vuole avere prima una squadra. Ma forse gli servono le parole giuste, che non siano banali. I suoi profili sono invasi di parole di amore, a Ciro che a 35 anni non si sente vecchio: insegue un nuovo inizio anche lui, che male c’è? Ammainare una bandiera non è mai una cosa semplice, non vi riesce neanche Buffon. Però è forse arrivato il momento anche per lui per salutare, gli servirà per far stare meglio i tifosi. E per star meglio lui. Arrivederci, amigo.