“Alleria”, cantava Pino Daniele in dialetto napoletano. Quel sentimento discreto che ti tiene la mano quando la mente viaggia indietro nel tempo, quando hai fisicamente bisogno di un rifugio, di un soffice plaid che scaldi l’anima. L’alleria è un viaggio a ritroso con tante soste, piacevoli, ma non programmate. Un ricordo che ti mette al riparo, un sorriso inconsapevole che si fa spontaneamente strada.
Come quello disegnato sul volto di Antonio Careca, tornato a Pompei, nella città degli Scavi e del Santuario. Un posto tanto amato anche dal suo amico Diego (Maradona), che prima di ogni Natale chiedeva di poter far visita agli orfanelli per sostenerli economicamente con offerte sempre molto generose. Siamo in via Sacra, a pochi metri dal Santuario della Beata Vergine e dal sito archeologico tra i più famosi al mondo. È febbraio, ma ci sono più di 15 gradi, quasi ad omaggiare le origine brasiliane del campione.
Al numero civico 23, accarezzata dal sole, campeggia un’insegna: “Pizzeria Alleria”. Un uomo di mezza età entra ed esce dal locale, si affaccia, guarda l’ora e controlla che sia tutto a posto. È Giuseppe, il proprietario, che deve gestire l’emozione di una giornata diversa dalle altre. Capisce che non sono lì per caso e con un cenno mi chiede se ho bisogno di qualcosa. “Faccio parte del tavolo prenotato da Careca”, gli dico. La sua espressione diviene più amichevole: “Ho messo già i paletti davanti all’ingresso per conservargli il parcheggio, così quando arriva fa Ampressa ampress, perché altrimenti qui è una tragedia. Non puoi capire l’emozione, tu sei giovane, ma quelli della mia età hanno sognato con Careca e adesso è un grande onore averlo qui”.
A spezzare questo magico momento di amarcord è proprio l’improvviso arrivo di Careca, il brasiliano scende dai sedili posteriori della Peugeot e ci stringe la mano. “Tu sei il giornalista?”.
“Sì, piacere”.
“Sei venuto a posta da Milano per l’intervista?”.
“Beh, si”.
“E allor si tutt strunz”.
Tutti ridono, e rido anch’io. Ma soprattutto mi chiedo come sia possibile che Careca parli in napoletano come fosse uno scugnizzo di Forcella. Lui, che è di San Paolo e che in Italia non torna poi così spesso. Realizzo che la sua storia napoletana è stata tutt’altro che una parentesi, vissuta in simbiosi con un popolo che è diventato anche il suo. Perché la forza di quel Napoli era anche questa, chi arrivava al San Paolo sapeva che in campo non sarebbe scesa una squadra ma una città.
“Sono un brasiliano napoletano, mi arrabbio quando parlano di Napoli sempre in un certo modo. Per fortuna le cose sono cambiate molto rispetto a quando sono arrivato io, all’epoca ci descrivevano come il terzo mondo. Qualche passo avanti è stato fatto, un percorso che ha avviato Diego prima di tutti”.
Perché dici Diego, c’eri comunque anche tu.
“Dico Diego perché lui è arrivato prima e perché è stato il nostro esempio. Lui ha guidato una rivoluzione sportiva che però aveva un senso molto più profondo, che andava oltre i confini del campo. Abbiamo vinto contro Roma, contro Milano, contro Torino. Hanno vinto i napoletani, che avevano bisogno di affrancarsi. Senza Maradona non sarebbe stato possibile”.
E anche tu ti sei calato nella parte.
“Non è stato difficile, riconoscevo in tante persone le stesse difficoltà che c’erano anche in Brasile. Io vengo da una famiglia modesta, il mio papà ha giocato un po’ a calcio ma poi si arrangiava da muratore. E c’è un’altra cosa che accomuna brasiliani e napoletani”.
Quale?
“Il modo di affrontare la vita e i problemi. A Napoli ti sorridono tutti, sono allegri e calorosi. Sembra vivano senza complicanze e invece ho conosciuto realtà molto difficili. La differenza sta nell’approccio, in quel saper trovare spesso anche il lato ironico della cosa. Ma anche nel forte senso di solidarietà. Da altre parti l’egoismo è un elemento che purtroppo si afferma sempre di più. A Napoli non attecchisce, a Napoli ci si aiuta e forse è anche questo che regala una speranza in più a chi tutti i giorni deve andare avanti”.
Sei arrivato in Italia a 27 anni, come mai così tardi?
“Ai miei tempi non era tardi. Non dimenticarti che non c’erano tutti gli strumenti che ci sono adesso, non c’era il web e conoscere calciatori che giocavano dall’altro lato del mondo era tutt’altro che semplice. E poi sono arrivato con la giusta esperienza, sposato, con i miei bambini piccoli. Una condizione che mi ha aiutato molto”.
Da quale punto di vista?
“L’amore dei tifosi era fantastico, ma difficile da gestire, a tratti asfissiante. Per noi era impossibile uscire di giorno senza ritrovarsi accerchiati, mi riconoscevano anche con barba finta, occhiali e cappello. Trascorrevo tanto tempo a casa e se fossi stato molto giovane, senza moglie e figli, sarebbe stato più difficile. Mi hanno dato equilibrio e serenità, serate tranquille e qualche buon piatto di pasta con le vongole, il mio preferito”.
Ma chi ti ha portato al Napoli, scovandoti dall’altro lato del mondo?
“Luciano Moggi, ma il merito è stato di Junior, mio connazionale. Mi conosceva, mi stimava, e ai tempi del Torino fece il mio nome a Moggi, che poi si trasferì a Napoli e venne a trattare l’acquisto del mio cartellino”.
Torniamo però in via Sacra, quella a due passi dal Santuario e dal sito archeologico. Ma anche dal Comando della Polizia di Stato. La saletta si riempie di agenti, Careca alza lo sguardo: “Mannagg o manicomio”, sempre in perfetto napoletano. Irruzione pacifica, tutti in processione per l’autografo del bomber, comandante e ispettore compreso. Inizia a spargersi la voce, arrivano gli amici degli amici, nonni, nipoti, zii, cugini. Ad un tratto anche un cardiologo: “Piacere, se avete bisogno di qualsiasi cosa…”. “Ma speramme e no”, la risposta risoluta di Careca.
Nel frattempo a tavola arriva: una zizzona di Battipaglia, prosciutto crudo, pomodoro, nuggets di pollo, frittatina di pasta, vino rosso e babà salati: “Chist so chill che abbiamo dato alla Roma, tiè Caré”. “Ma io non ho ancora ordinato”. “Non fa niente, iniziate a spizzicare”. “Ma dopo devo andare ad allenare i bambini”. “Appunto, mangiate”.
La saletta torna vivibile…
Hai visto qualche partita del Napoli?
“Sono forti, giocano bene e sono uniti. Ho parlato con Spalletti e mi ha fatto una bellissima impressione, un uomo pulito e onesto. Questo ai calciatori arriva. E poi c’è Osimhen…”
Cosa ne pensi?
“Che è fortissimo e che diventerà ancora più forte perché ha voglia di migliorarsi e ha ancora qualcosina da sgrezzare. Ma è inarrestabile, ha uno strapotere fisico impressionante. Nel gol fatto contro la Roma ho visto qualcosa di Pelé, ha dominato il pallone, sovrastato il difensore e spaccato la porta. In quel gol c’è tutto, tecnica, cattiveria e potenza”.
Al di là del Napoli, questo calcio ti diverte ancora?
“È diventato business, non c’è più il senso di appartenenza che c’era prima. È tutto diverso, ma i meno colpevoli sono i calciatori. È il sistema che è malato e anche i giocatori faticano a confermarsi per tanto tempo ad alto livello”.
Per quale motivo?
“Dopo dieci partite buone li riempiono di milioni quando sono ancora giovanissimi ed è facile smarrirsi. È facile perdere stimoli e motivazioni, parliamo sempre di ragazzini e sarebbe giusto accompagnarli gradualmente a certi guadagni. Anche per questo motivo non c’è più quel senso di appartenenza che c’era prima”.
A proposito di calcio giovanile, c’è qualche giovane brasiliano da segnalare?
“Ce ne sono tre che mi piacciono particolarmente, ma sono veramente tanto giovani. Te li svelo fuori intervista, così vai a studiarteli”.
Ti ricordo due cori: oh mamma, mamma, mamma, innamorato so, ho visto Maradona e Caré, Caré, Caré, tira la bomba, tira la bomba. Qual è il più bello?
“Entrambi allo stesso modo perché tutti e due esprimono gioia. Ci esaltavano e ci caricavano”.
Hai vissuto uno scudetto da calciatore, sai cosa significa…
“E proprio perché lo so vorrei tornare per godermelo da tifoso insieme ai napoletani. Sono passati tanti anni, città e tifosi meritano di rivivere una gioia simile e cercherò di programmare bene gli spostamenti. Anche se ti dico una cosa, invidio molto Osimhen e compagni perché avrei voluto godermene almeno un altro da calciatore”.
“Gradisce un caffè?”, chiede Giuseppe a fine pranzo. “No, grazie, mi fa venire la tachicardia e prima non ho neanche preso il numero del cardiologo”. Altri saluti, foto, autografi e video dedicati: “Qui c’è uno che dice che quella monetina non l’ha neanche colpito Alemao”. “No, ma che dice questo oh? L’ha preso, l’ha preso. Guarda bene. Non c’era il VAR”.
Ci spostiamo al Parco Carolina di Torre Annunziata, 100 bambini della scuola calcio Azzurri lo attendono per allenarsi con lui. Hanno 10 anni, non lo hanno mai visto giocare ma sanno bene chi è e cosa ha rappresentato: “Tutte le volte che correte dietro a un pallone, non dovete pensare a niente altro che alla libertà e alla gioia che vi procura. Il calcio è fantasia e allegria, vivetelo così perché altrimenti non ha senso. E quella fantasia non abbiate paura di esprimerla”. E quando arrivi davanti alla porta…
“Tira la bomba, tira la bomba”.
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