Ha indossato per l’ultima volta la maglia del Napoli il 17 giugno, poco più di cinque mesi fa. Era nella sua casa di Buenos Aires, davanti alla tv, ad osservare i suoi ragazzi – i calciatori di questo Napoli – nella finale di Coppa Italia. Esultò dopo la vittoria ai rigori sulla Juve e postò sui social la sua foto con un largo sorriso. Maradona è stato, è e sarà per sempre il Napoli. Una bandiera che avrebbe potuto continuare a sventolare per questo club se si fosse concretizzata l’ipotesi di farne l’ambasciatore azzurro nel mondo. Continuerà ad esserlo perché è infinita questa storia d’amore.
Le relazioni di Maradona, da quelle affettive a quelle professionali, non sono state mai semplici e anche quella col Napoli iniziò male trentasei anni fa. Cinquantacinque giorni di trattative a Barcellona per acquistare quell’argentino di grande talento che Gianni Di Marzio, allenatore del Napoli, aveva suggerito a Ferlaino nel 78, prima dei Mondiali in Argentina. Allora le frontiere erano chiuse, ma nell’84 si potevano tesserare calciatori stranieri. Ferlaino e il direttore generale Juliano, affiancati da consiglieri di assoluto valore (tra questi Celentano, Punzo, Resi, Tagliamonte), riuscirono a convincere il Barcellona soltanto al cinquantacinquesimo giorno, il 30 giugno dell’84 pagando 14 miliardi di lire grazie al supporto del Banco di Napoli. Cinque giorni dopo, il 5 luglio, la presentazione al San Paolo. «Buonasera napolitani» e un palleggio di sinistro che fu una promessa d’amore, quasi come se Diego volesse dire al suo popolo: seguitemi e ci divertiremo.
Il primo anno fu deludente, il Napoli aveva ancora le scorie delle precedenti stagioni in cui era stato costretto a lottare per non retrocedere. Il girone d’andata fu un tormento, poi arrivò un chiarimento tra giocatori italiani e stranieri nel ritiro di Vietri sul Mare, la squadra allenata da un gentiluomo della panchina come Marchesi ingranò e si salvò facilmente mentre Ferlaino cominciava a pianificare il futuro con il giovane tecnico del Como, Bianchi, l’ex manager federale Allodi e il ds dell’Avellino, Marino. «Dissi al presidente: se non acquista giocatori forti io vado via», avrebbe ricordato Diego nell’autobiografia «Yo soy el Diego» scritta con Daniel Arcucci. Il bomber Bruno Giordano fu il primo rinforzo di una squadra che tornò in Europa dopo aver conquistato vittorie importanti (indimenticabile quella sulla Juve il 3 novembre dell’85, la punizione che superò la forza di gravità) e preparò l’assalto allo scudetto dopo il successo di Diego ai Mondiali dell’86, dove l’argentino aveva voluto al suo fianco il massaggiatore Carmando. «E adesso vincerò nella mia Napoli», raccontò ai cronisti italiani negli spogliatoi dello stadio Azteca. E quel giorno arrivò.
Anno 1987, domenica 10 maggio, l’1-1 con la Fiorentina e la festa per lo scudetto atteso sessantun anni. «Sono felice di averlo vinto nel giorno della festa della mamma», dedicò il primo pensiero a donna Tota. Maradona aveva trascinato il Napoli, guidandolo al successo sul campo tabù della Juve il 9 novembre dell’86. E i complimenti di Agnelli negli spogliatoi del Comunale furono il doveroso omaggio al Napoli diventato finalmente na cosa grande come aveva sognato in tutta la sua sofferta storia, in quella affannosa rincorsa verso il trionfo. Ma c’era un altro aspetto che inorgogliva Diego ed era la rivincita sul Nord razzista, conosciuto subito, nel giorno del debutto in serie A a Verona. Piegò la Juve, l’Inter e il Milan, che però il Primo maggio dell’88 riuscì a vincere al San Paolo, davanti ad ottantamila napoletani che videro sfumare lo scudetto. Diego li aveva convocati da vero capopolo. «Neanche una bandiera rossonera voglio vedere, neanche una». Non ne vide, ma non bastò per battere il Milan di Sacchi, allenatore che lui avrebbe voluto sulla panchina del Napoli al posto di Bianchi.
La vita di Maradona aveva imboccato la via più buia, nulla riusciva ad allontanarlo dalla cocaina, ed ecco perché avrebbe voluto andare altrove. Lo corteggiò il Marsiglia, ma Ferlaino rifiutò l’offerta di Tapie pochi giorni dopo aver vinto la Coppa Uefa, primo e unico trofeo europeo nella bacheca del club. Una cavalcata trionfale, conclusa nello stadio di Stoccarda il 17 maggio dell’89 davanti a trentamila italiani. Si offese, Diego: lo ritenne uno sgarbo. Però l’amore per il calcio e per Napoli era più forte di tutto. Vinse ancora, il secondo scudetto, affidandosi alle cure del professore Dal Monte per prepararsi al Mondiale del 90, quello che avrebbe giocato da capitano della Seleccion campione. Il Milan si lamentò per la vittoria a tavolino del Napoli per la moneta che colpì Alemao alla testa sul campo dell’Atalanta. Se la presero con il massaggiatore Carmando, invece era stato Maradona a dire al compagno brasiliano: «Resta a terra, ci danno partita vinta». La festa per la Supercoppa, conquistata dopo i cinque gol alla Juve il primo settembre di trent’anni fa, fu l’ultimo successo prima del crollo fisico. Diego si smarrì, nessuno riuscì più a proteggerlo e a nascondere il suo dramma umano. A fine marzo arrivò la notizia della squalifica per doping. Fine della favola più bella dopo sette anni, 259 partite e 115 gol. Scappò di notte per tornare in Argentina. Scaduta la squalifica, nell’estate del 92, Ferlaino e l’allenatore Ranieri provarono a riportarlo a Napoli. Diego aveva poco più di trentun anni e avrebbe potuto ricominciare. Scelse un alleato per fuggire, il segretario della Fifa, Blatter, che obbligò il Napoli ad accontentarsi di 4 milioni di dollari – poi neanche pagati – per mandarlo al Siviglia. Due anni dopo, squalificato per doping anche ai Mondiali degli Stati Uniti, Diego capì che aveva scelto l’amico sbagliato, come spesso è accaduto nella sua vita.