Testa, ginocchio, flessore, partita. Fa tutto Zlatan Ibrahimovic occupando la partita e il San Paolo col suo corpaccione. Segna due gol, porta il Milan in testa alla classifica e poi si fa male, ma quando ormai ha scritto la storia della partita. Sembra un ragazzino l’attaccante svedese per come vive il campo, vince gli scontri aerei e domina gli avversari. Il Milan senza lui è una squadra normale, con lui diventa un fastidio continuo perché fa da appoggio per ogni passaggio che sia a terra o in area, i compagni sanno sempre a chi passarla, e la ricevono con precisione, è innegabilmente il centro del gioco e della partita, complice un Napoli molle che non riesce mai a contenerlo, non a caso sul suo secondo gol si ritrovano Koulibaly e Mario Rui entrambi fuori tempo a guardarlo segnare, anticipati dal suo ginocchio, con un senso della posizione da goleador che sa dove arriverà il passaggio di Rebic. Ibra sa dove stare, dove giocare, dove sfondare.
E il primo gol ricorda quelli di Marco Van Basten un colpo di testa di forza da quattordici metri, su cross di Hernandez, con Koulibaly spettatore pagante (in pagella) e colpevole. Ma è Ibra, cioè il tempo che non passa, la forza di giocare sempre al massimo e la gioia bambina trasmessa a chi lo vede giocare, se avesse trovato una squadra stabile avrebbe raccolto molto di più. Ad oggi è uno dei pochi motivi per guardare il campionato italiano, anche se poi sul finale di partita arriva stanco, arranca, e si fa male da solo, perché non si risparmia.
È un Ibra diverso questo d’autunno al Milan, maturo, meno irruento, che è andato oltre le ossessioni da calciatore, gioca con una tranquillità che poi verrà studiata, più di quella che ha sempre avuto, perché ora non ha nulla da perdere, gioca per la bellezza di vincere, ma se non succede non ci sono più le pressioni di una volta. Il Milan è un esperimento, un laboratorio per capire come tornare la grande squadra, con un margine di errore alto che passa per una sperimentazione scanzonata, la condizione ideale per Ibra, che fa il leader e il capocannoniere, e quando va in panchina fa anche la voce grossa più di Bonera che sostituisce Pioli.
Se lo può permettere perché in campo e fuori Ibra esce dal conformismo, incarnando quell’eversione che si aspetta chi segue il calcio, e che si trova sempre meno. È spigoloso, con gli anni sembra una lancia, con i capelli raccolti da samurai, si sta affinando, e diventa sempre più tagliente, lo ha scoperto la difesa del Napoli attraversata in lungo e in largo con il solo Manolas ogni tanto a porre rimedio. Ibra è stato il migliore in campo anche perché a differenza degli altri ha sempre un obiettivo preciso: essere il migliore in campo, non aspettare le condizioni per provare ad esserlo.
Strappa a se stesso in ogni partita non la promessa ma l’obbligo di condizionarla, è un tiranno del proprio corpo tanto che poi ne paga le spese sul finale, stanco e acciaccato, gli si accende la spia del flessore sinistro, e solo perché ormai la missione è compiuta, la partita decisa, il primo posto raggiunto, esce, lasciando in dote al Milan due gol. Ibra è divenuto fondamentale in poco, ha subito dimostrato che la sua forza di volontà, la sua disciplina, il suo corpo, sono superiori alle controindicazioni dell’età. Ha dribblato le trappole del tempo e si sta amministrando benissimo: segna, comanda, diverte. Il Napoli invece segna poco, non comanda e non diverte, e non ha nemmeno un Ibra. Anzi Koulibaly ha avuto di nuovo una partita-pozzo, come Mario Rui e Di Lorenzo, e pensare che Ibra alla loro età collezionava scudetti.