L’allenatore del primo scudetto del Napoli racconta: “È una situazione drammatica che ci porteremo dentro per sempre. Trovo molto belle le parole di Papa Bergoglio”
Bergamo e Brescia rappresentano il perimetro della vita di Ottavio Bianchi: c’è il suo vissuto, che ora contiene il dolore.
«Una vita che non è più vita. Rinchiuso dentro casa senza avere un orizzonte, in giornate che sono tutte eguali e tutte piatte, aspettando il bollettino serale dei Tg che fanno la conta dei morti. Voci che si accavallano, quella di parolai, con contraddizioni che si intrecciano».
E privati di qualsiasi umana prospettiva.
«Non si trovano soluzioni convergenti, ognuno interpreta secondo personali visioni. E non si immagina il futuro, perché non abbiamo informazioni su possibili vaccini. Io vivo qua da sempre, anche se ho avuto la fortuna di girare tanto e di fare ciò che mi piaceva; da 47 anni sono a Bergamo, penso di conoscere un po’ la mia terra e la mia gente, che ha in testa innanzitutto il lavoro. E’ tutto fermo, adesso, e non siamo in grado di stabilire cosa accadrà dopo, perché il pericolo maggiore sta per arrivare».
C’è da temere anche il «dopo», ovviamente.
«Il telefono adesso è un tormento: hai paura che ti chiamino per dirti che un parente o un amico sia scomparso. Ho davanti agli occhi, ogni notte, le immagini delle bare portate sui camion militari. E’ la scena più dolorosa a cui abbia assistito: ci siamo ritrovati dentro a questo orribile film, però scoprendo che era la realtà a cui siamo stati costretti. Vorremmo il conforto della scienza ma spesso i virologi sono in contrasto tra di loro. C’è fumo nelle teorie e psicologicamente si fa sempre più dura».
De Laurentiis e la maglia di Mertens
Cosa ha scoperto che non sapeva di sé Ottavio Bianchi?
«Volendo sorridere un po’, che ha imparato a fare il caffè. Mi sono organizzato, vivo da solo e devo industriarmi anche nei lavori domestici, perché – com’è giusto che sia – non possono raggiungermi i miei figli. E’ una condizione che per alcuni può diventare terribile. Siamo di fronte ad un disastro epocale, lo dicono le statistiche non io. E senza che compaia una via d’uscita. Non trovi che decretini, l’uno il prolungamento dell’altro. E a volte, ti accorgi anche che qualcuno di questi signori riesce persino a dare dimostrazione di comicità involontaria».
La fase-2 cosa è per lei?
«Non è cominciata e sono privo di immaginazione. Penso a chi ha lavorato una vita intera per lanciare un negozio, un bar, un ristorante ma non sanno quando riapriranno e come. E penso anche ai nostri nonni, ai genitori, a noi stessi, ai nostri figli, a chiunque abbia fatto sacrifici per costruire qualcosa che sta sparendo, sotto il peso della crisi economica».
È difficile riuscire a essere positivi.
«Siamo stati bravi e rigorosi nei comportamenti, almeno così mi sembra. Però poi se sto lì a riflettere mi accorgo che ci vorrebbe una prospettiva, fosse anche solo per una passeggiata, pochi metri, quelli che servono a chi ne ha veramente bisogno. E poi per chi come me ha un’età, per quella fascia di persone che si chiama anziana, ora c’è l’oblio: non muovetevi, non dovete, non potete. Mentre invece il fi sico ne ha bisogno: sgranchirsi le gambe non è un desiderio stupido di chi è vecchio, per qualcuno è una necessità».
Leggi l’intervista completa sull’edizione nazionale del Corriere dello Sport-Stadio