Dal punto di vista del mercato, il trasferimento di Sarri alla Juve
è solo una delle tante operazioni con cui i club ridisegnano
le loro squadre, tra un campionato e l’altro. Dal punto
di vista più strettamente calcistico, poi, non fa certo
meraviglia che uno dei migliori allenatori in circolazione sieda
sulla panchina di una delle più prestigiose squadre
europee.
Dal punto di vista della sfida professionale, infine, si tratta del
massimo a cui, in Italia, un allenatore può ambire. E
però, al tirar delle somme, si tratta non di Stramaccioni
all’Esteghlal, blasonata squadra iraniana (auguri!), ma di
Maurizio Sarri allo Juventus Football Club. E qui fare gli auguri
viene più complicato.
Piuttosto: lo si scrive, lo si ripete, lo si si rimarca come se non
ci si potesse credere: Sarri? Alla Juve? L’allenatore in tuta,
la barba un po’ incolta e la sigaretta sempre accesa? Quello
che il Milan non prese perché di sinistra? Quello che ha
mostrato il dito medio ai tifosi bianconeri? Quello che i rigori li
danno solo se hai la maglia a righe? Proprio lui. E Napoli, la
Napoli del pallone che ne ha fatto per tre anni il suo Masaniello,
si ritrova a pensare che qualcosa è andato storto, che
l’ideologo si è imbrogliato con i suoi stessi dati, e
invece di espugnare il Palazzo è andato ad abitarci. Uno
pensa allora a Stavrogin, il celebre personaggio de «I
demoni» di Dostoevskij, ma pure all’incappottato Antonio
Barbacane, che davanti al Ministero invita i posteggiatori abusivi,
«urbani e interurbani», a unirsi nella lotta, ma a cui
in definitiva premeva, più che risolvere i problemi della
categoria, ottenere almeno un posto. Per sé.
Sarri, insomma, si è sistemato. Ma stupore, amarezza e
«nervatura» ti pigliano solo se, ancora una volta, hai
voluto recitare la parte del lazzaro alla rivoluzione. Una parte
per la quale ormai gli storici hanno un nome. Alla domanda su cosa
sia il masaniellismo, Aurelio Musi ha infatti risposto una volta:
«È la tendenza a svolgere funzione di caporione
aggregando più settori, popolo, popolino e popolaccio, ma
senza un obiettivo politico preciso. Tutti insieme non per un
progetto comune a lungo termine ma per far risaltare i bersagli
più semplici e immediati».
Questa tendenza, purtroppo, Napoli ce l’ha tutta. E non parlo
più, ovviamente, della Napoli calcistica. Lasciamo perdere
la figura del caporione: è la mancanza dell’obiettivo
politico preciso, la mancanza di un progetto comune, la mancanza di
un disegno a lungo termine, che condannano la città. (A meno
che non pensiate che Palazzo San Giacomo stia davvero per battere
moneta). Il caporione a cui affidare il riscatto di popolo,
popolino, e popolaccio viene di conseguenza.
Ora i tifosi napoletani parlano di amore tradito. Masaniello
è stato consegnato o si è consegnato, è stato
tradito o ha tradito: non è chiaro. Ma intanto:
c’è qualche altra grande città, in Italia o in
Europa, in cui si parla così tanto di amore: non solo nel
calcio, nei film o nelle canzoni, ma pure nel discorso pubblico?
Credo di no. Se però questo è il linguaggio a cui
viene consegnata la dolente vicenda come in fondo è
già stato per Higuain, e come in futuro sarà ancora
per chissà chi altri non vorrà dire, molto più
prosaicamente, che il famoso cuore di Napoli non ne vuol sapere di
adottare l’ottica del mercato, che gli vanno strette le regole
del gioco, che non riesce ad appassionarsi ai curricula?
From: Il Mattino.