Un mare di bandiere azzurre invase nuovamente Napoli dopo tre anni in cui era accaduto di tutto: lo scudetto perso nell’88, con la successiva rivolta dello spogliatoio contro l’allenatore Bianchi; la conquista della Coppa Uefa, ancora con Bianchi, che poi fu licenziato non dalla squadra ma da Ferlaino; le tensioni con Maradona, che dopo aver vinto a Stoccarda avrebbe voluto trasferirsi a Marsiglia e si infuri, quando il presidente ritir la promessa, a tal punto da ritardare il rientro dall’Argentina e da mandare nel panico il nuovo allenatore Bigon, assunto dopo l’apprendistato a Cesena. Per il padovano Albertino, che arrivava al Centro Paradiso con un’anonima Uno blu, aveva la dote della pazienza perch veniva dalla grande scuola del Milan e seppe gestire, almeno per un anno, Diego. Insieme il campione del mondo e il giovane allenatore vinsero lo scudetto il 29 aprile 1990. Trent’anni fa. un giorno cos diverso da quella domenica in cui eravamo tutti in strada: lo ricorderanno oggi sul Mattino.it e sulla pagina Facebook del nostro giornale, dalle ore 18, i protagonisti dell’epoca, a cominciare dal presidente Ferlaino.
L’87 e il 90, due scudetti diversi. Il primo ha dato più emozioni, il secondo più soddisfazioni, perché sottratto a un avversario, il Milan, che era molto cresciuto in tre anni, arrivando ad essere una big del calcio mondiale. Nonostante Maradona non fosse inizialmente di genio (si presentò a Napoli in ritardo e debuttò il 17 settembre in panchina) Bigon era riuscito a creare con gli italiani – tanti erano nel giro della Nazionale di Vicini – un gruppo così coeso da essere imbattuto nelle prime 16 partite. Diego stava già perdendo lucidità e vigore. Le sue notti di cocaina, prostitute e amici sbagliati erano sempre più lunghe e devastanti. E così un giorno non andò in ritiro a Soccavo alla vigilia della partita di Coppa Uefa con gli svizzeri del Wettingen del 1° novembre, presentandosi direttamente al San Paolo per giocare. Ma il Napoli gli intimò di tornare a casa e il giorno dopo a Soccavo, inseguito dai giornalisti, Maradona canticchiò: «Ferlaino è il mio capo, se vuole giocherò». Come si fece a ricomporre lo scontro che avrebbe potuto rovinare il campionato e la storia del Napoli? I giocatori erano legatissimi a Diego, non avrebbero mai fatto un gesto o detto una parola contro di lui: continuarono a rispettarlo e a proteggerlo. Ferlaino gestì intelligentemente la situazione con la forte società che aveva creato.
Proprio in quel periodo, avvicinandosi i Mondiali d’Italia, Maradona decise di dare una svolta alla sua stagione, sollecitato dall’orgoglio di indossare la cameseta dell’Argentina e dai discorsi del suo preparatore atletico Signorini. Com’era accaduto quattro anni prima, alla vigilia del Mondiali del Messico, andava periodicamente presso l’Istituto di Scienza dello Sport a Roma per allenamenti specifici sotto la guida del professor Dal Monte. Perse chili, recuperò freschezza atletica e agilità e se ne giovò anche il Napoli, che riuscì a tornare in testa l’8 aprile, quando il Milan fu bloccato in casa dal Bologna mentre gli azzurri vinsero a tavolino la partita con l’Atalanta per la moneta che colpì alla testa Alemao. La furiosa polemica scatenata da Berlusconi e dai suoi avrebbe portato a una modifica del regolamento sulla responsabilità oggettiva. E un anno dopo Carmando, il massaggiatore che aveva suturato la ferita del brasiliano, fu allontanato dalla Nazionale: Sacchi ne era diventato il ct. Ma, come dice Bigon, «il Milan continua a fare male i conti»: il 29 aprile il Napoli arrivò primo con 51 punti, il Milan si fermò a 49, quindi se anche gli azzurri avessero pareggiato a Bergamo (erano sullo 0-0) sarebbero stati campioni d’Italia.
Nell’ultima domenica di campionato Baroni, difensore del Lecce acquistato per 6 miliardi di lire, mise il sigillo allo scudetto 1989-1990 segnando di testa alla Lazio dopo 7′ e chiudendo i conti con l’arrogante Milan. In città sulle bancarelle, accanto alle lattine con l’aria di Napoli, erano spuntate le boccettine con le lacrime di Ramaccioni, celebre team manager rossonero che si lamentava per la moneta di Bergamo nelle tv di di Berlusconi. E poi sui muri striscioni carichi di ironia per il Cavaliere, Sacchi, i rossoneri che avevano perso la testa dopo il verdetto del giudice sportivo, confermato dalla Caf il 21 aprile, il sabato prima di Verona-Milan e Bologna-Napoli. Domenica decisiva, quella. Il Milan perse a Verona, dove l’arbitro Lo Bello espulse Rijkaard, Van Basten, Costacurta e Sacchi. Il Napoli vinse a Bologna davanti a 25mila tifosi. Per due anni gli azzurri avevano aspettato il giorno della rivincita per quel 2-3 del 1° maggio, lavorando con attenzione sul mercato e cercando di gestire Maradona. Non a caso, dopo aver vinto la Coppa Uefa, il dg Moggi aveva preso due alternativi 10: l’esperto Mauro, che veniva dalla Juve, e il giovane Zola, che arrivava dalla Torres. Era un Napoli di stelle: Careca e Alemao gli alfieri del Brasile; un ampio gruppo di nazionali azzurri che sognavano di vincere il Mondiale, guidati dal futuro capitano Ferrara; il portiere Giuliani che sei anni dopo avrebbe smesso di volare perché ucciso dall’Aids. Era un Napoli che aveva forse meno fascino di quello dell’87 ma la stessa concretezza e una superiore forza fisica, perché compì lo sprint decisivo in primavera.
Maradona raccontò così il trionfo del 90 nell’autobiografia «Yo soy el Diego»: «Il Barbuto, cioè Dio, tornò a darmi una mano, o meglio a tirarmi una moneta, quando sembrava che lo scudetto fosse del Milan. La cosa migliore era stata aver preso Bigon, che sapeva parlare ai calciatori». Ferlaino e il Napoli erano riusciti a saltare ancora una volta oltre gli ostacoli del degrado del capitano e della maggiore forza economica di Milan, Juve e Inter. Non immaginavamo, quel giorno in cui la gioia e non la paura fece 90, che sarebbe stato l’ultimo scudetto del Napoli, che avrebbe poi vissuto il fallimento, sei anni in B e due in C. Non si può più sognare, ma il ricordo ci dà forza. E allora oggi ai nostri balconi, accanto al tricolore, mettiamo anche una bandiera azzurra.