Adl in ritiro alla vigilia mentre Rino cerca la carica giusta per non perdere ulteriore terreno in una occasione mai normale
Magari si potrà riscrivere il finale, tagliuzzando qua e là le scene dell’horror già montate, oppure quelle che s’intravedono nell’immaginario collettivo che sa di pessimismo cosmico: e comunque dentro un pallone (di cuoio o di qualche diavoleria moderna) non è possibile guardarci e Gattuso ha scelto di farlo a modo suo, avvertendo come una ventata d’aria pura la presenza di De Laurentiis: c’è da salvare una stagione, con dentro una panchina, e quando la Coppa Italia se ne è andata via, adesso non rimane che aggrapparsi disperatamente alla Champions e quindi al quarto posto ma anche all’Europa League, che sta proprio nascosta dietro la sagoma minacciosa di una Vecchia Signora, allo stato dell’arte una killer in sedicesimi.
Per lanciarsi in una notte torbida, ma costruita dilapidando ripetutamente in due mesi più potenti di un elettrochoc, Gattuso s’è rifugiato nelle abitudini d’un passato che gli appartiene, d’un football nel quale il modernismo va accantonato per starsene insieme, in ritiro, annusare assieme «il pericolo», semmai dotarsi d’una robusta dose «di veleno» e comunque assorbire lo stress e la tensione per tentare di domarla. E quando Napoli-Juventus starà per cominciare, in questa dimensione che non è scenografica, men che meno cinematografica, piomberà anche Aurelio De Laurentiis, a suo modo attore protagonista d’una sceneggiatura ch’è incompleta, è stata scritta dopo Verona e poi accantonata a bordo campo.
Dall’abbraccio con il Parma se n’è andato poi via un tempo soffocato dalla malinconia, è rimasto poc’altro: quell’immagine (assai) sbiadita d’una squadra che va ad abbracciare il proprio allenatore – come se con lui avesse stretto un patto – e che poi, in sequenza, da un’Atalanta all’altra, lo lascia lì da solo con i propri pensieri, i turbamenti, le contorsioni tattiche, quell’universo rigorosamente personale con cui Gattuso è costretto a convivere e a dominare.
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