Nella carriera del tecnico toscano emerge il suo plus sugli attaccanti centrali. Il nigeriano può migliorare nettamente lo score realizzativo
Qualcuno dovrà pur spiegare a Victor Osimhen cosa gli stia capitando: perché proprio mentre lui nasceva, un aeroplanino, Vincenzino Montella, ne faceva sedici e si preparava a decollare verso una nuova stagione del proprio vissuto. Ventitré anni sono un’enormità, rappresentano varie vite cambiate, le riempiono di trasformazioni (anche) epocali: però converrà suggerire ad Osimhen di provare a rileggersi Luciano Spalletti, a studiarlo dentro quelle varie versioni che
si sono accavallate tra generazioni di fenomeni spesso modulati a propria immagine e somiglianza o semplicemente assecondati nella loro stessa natura, perché ci sono uomini ai quali non è necessario chiedere altro ed è sufficiente evitare di modifi carli «geneticamente».
In quest’ultimo ventennio, per un po’ attraversato a San Pietroburgo, ci sono tanti Luciano Spalletti che si specchiano in un calcio alternativo, rinfrescato di idee inedite, pionieristico e rivoluzionario, capace di sfuggire a catalogazioni ed insoff erente a rimanere immobile dinnanzi al mondo che continua a rotolare. Un’Udinese di Spalletti si fece bastare Dino Fava Passaro, quattordici gol, e poi quella successiva si «accontentò» (e si fa per dire) di David Di Michele, lusingando le stelle. Ma Roma è lo spartiacque, e ci mancherebbe, perché è piena di storia che sembra si scorga tra i sanpietrini, perché Totti prima punta e il macrocosmo di Mancini (18 gol) che gli ruota intorno, rappresentano cucchiai di miele, prima che s’arrivi al fiele. Però la Roma di Spalletti è un ponte lanciato sul futuro, è un tornado in un «pupone» da trentadue (32) reti, è un laboratorio nel quale si scorgono le nuvolette di fumo di chi sta lì a sforzare le meningi.
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