A tutto Sarri: «Per noi italiani il richiamo di casa è forte»


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«Per noi italiani il richiamo di casa è forte. Senti che manca qualcosa. È stato un anno pesante. Comincio a sentire il peso degli amici lontani, dei genitori anziani che vedo di rado. Ma alla mia età faccio solo scelte professionali. Non potrò allenare 20 anni. È l’anagrafe a dirlo», così Maurizio Sarri, nelle ore del giallo sul suo approdo alla Juventus, parla in esclusiva a Vanity Fair (l’intervista integrale sul giornale di domani) della sua voglia di tornare in Italia dopo l’anno passato nella panchina del Chelsea, che ha portato al trionfo in Europa League.

Sarri, che è cresciuto in Toscana ma che ha origini napoletane, sulle pagine di Vanity Fair risponde alle polemiche dei tifosi del Napoli, che non vorrebbero vederlo andare a una squadra rivale dopo le tre stagioni alla guida negli azzurri, e indirettamente anche al presidente De Laurentiis, con cui un anno fa non si lasciò benissimo: «I napoletani conoscono l’amore che provo per loro, ho scelto l’estero l’anno scorso per non andare in una squadra italiana. La professione può portare ad altri percorsi, non cambierà il rapporto. Fedeltà è dare il 110% nel momento in cui ci sei. Che vuol dire essere fedele? E se un giorno la società ti manda via? Che fai: resti fedele a una moglie da cui hai divorziato? L’ultima bandiera è stata Totti, in futuro ne avremo zero». Quanto alla smania di cambiamento che sta spazzando via molte panchine del nostro campionato, Sarri se la prende con «il concetto di vittoria a ogni costo. Un’estremizzazione che annebbia le menti dei tifosi e di alcuni dirigenti – cosa che mi preoccupa di più. È sport, non ha senso. Non si può essere scontenti di un secondo posto».

Del leggendario sarrismo, che la Treccani ha accolto tra i neologismi come concezione del calcio ma anche come atteggiamento di sfida all’establishment, Sarri dice che «è un modo di giocare a calcio e basta. Nasce dagli schiaffi presi. L’evoluzione è figlia delle sconfitte. Non solo nel calcio. Io dopo una vittoria non so gioire. Chi vince, resta fermo nelle sue convinzioni. Una sconfitta mi segna dentro più a lungo, mi rende critico, mi sposta un passo avanti. Mio nipote mi fa leggere la pagina facebook Sarrismo e Rivoluzione. Si divertono, io sono anti-social, non ho nemmeno whatsapp».

E a proposito delle sue posizioni politiche di sinistra, Maurizio Sarri spiega aVanity Fair che «nel calcio ci si schiera poco. Per non trovarsi qualcuno contro. La mia estrazione è nota. Papà era gruista all’Italsider di Bagnoli. Mio nonno era partigiano, salvò due aviatori americani abbattuti dai nazisti, li tenne in casa per due mesi. È normale che avessi certe idee, oggi la politica non mi interessa più. Vedo storie di una tristezza estrema. Da lontano l’Italia è un posto che spreca occasioni».

Dei fuoriclasse – nel caso in cui dovesse allenare veramente la Juventus ne troverebbe uno di nome Cristiano Ronaldo – dice: «Esistono squadre medie di grandi giocatori o grandi squadre di giocatori medi. Io lavoro su questo. Il fuoriclasse è quello a disposizione della squadra, altrimenti è solo un bravo giocatore. Siamo pieni di palleggiatori fenomenali. Pure ai semafori. Il divertimento è contagioso se collettivo. Se ti diverti da solo, in 5 minuti arriva la noia».

Della leggendaria tuta che indossa in campo: «Se la società mi imponesse di andar vestito in altro modo, dovrei accettare. A me fanno tenerezza i giovani colleghi del campionato Primavera che portano la cravatta su campi improponibili. Mi fanno tristezza, sinceramente».

Delle sue superstizioni: «Ne ho meno di quelle che mi attribuiscono. Ho smesso di vestire solo di nero. Mi è rimasta l’abitudine di non mettere piede in campo, dentro le linee dico, finché la partita non è finita. Prima o poi abbandonerò pure questa: già in certi stadi le panchine son dalla parte opposta degli spogliatoi e il prato devo calpestarlo per forza. Quando cominci a vincere, le scaramanzie finiscono».

From: Il Mattino.

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