“Quell’episodio, aritmeticamente, è ininfluente, perché seppure non ci avessero assegnato la vittoria a tavolino come avvenne, noi saremmo stati campioni d’Italia”
Sono volati via trent’anni, quasi senza accorgersene, perché c’è sempre stata una monetina che ha danzato nell’aria: ed è come se fosse ieri, perché s’avvertono ancora il chiacchiericcio, le allusioni, che riempiono il vuoto pneumatico nel quale si rimane sospesi. È un’altra vita da quel 29 aprile del 1990 e Ricardo Alemao l’attraversa in video chiamata, con lo sguardo spento: doveva essere una chiacchierata un po’ nostalgica, alla ricerca di frammenti perduti, e diventa la confessione del proprio dolore, da provare ad anestetizzare distraendosi un po’, divagando ma non troppo da quest’angoscia. «Ho perso mamma, recentemente, e non se sia stato per il virus. Ma parliamo di tutto». Telefona di sera, quando in Italia è ormai buio da un bel po’ e però dal Brasile, dove pure sono cinque ore indietro, filtra un filo di luce, pur con l’orizzonte cupo: Ricardo Alemao è, suo malgrado, il protagonista di una vicenda destinata a durare, il frammento di un campionato racchiuso in una monetina che a Bergamo lo colpisce al capo, lo ferisce, e poi diventa argomento di discussione giuridicosportiva in quel calcio in il il principio della «responsabilità oggettiva» vale un 2-0 a tavolino. Lo scudetto di trent’anni fa è sempre avvolto in quella scena-madre, anche se poi c’erano state altre trentatré partite che la letteratura (quasi) spazza via. E Alemao, oggi, resta un’effigie: ma è testa e cuore.
Quando si perde una mamma è impossibile farsene una ragione: questi sono i giorni di tristi di Alemao, travolto dal dolore che soffoca e che opprime.
«E io ancora non so perché mia madre, Margherita, sia morta. Nessuno ci ha detto niente, non abbiamo neanche potuto salutarla come avremmo voluto, come si dovrebbe. È successo tre settimane fa ed è andata via in quattro giorni: la tosse è diventata polmonite, c’è stato un peggioramento e poi è spirata. L’abbiamo portata al Cimitero ed eravamo lì soltanto i familiari più stretti, i figli e i nipoti. Ci hanno consentito di stare dieci minuti insieme, senza ovviamente che si potesse aprire la bara, per vederla ancora una volta. L’ultima».
La sua scelta l’ha indotta a lasciarsi alle spalle il calcio, che è stato il suo mondo.
«Ho smesso anche di guardare le partite in tv, ogni tanto mi concedo quelle del Napoli. Ma ne sono uscito, perché qui l’ambiente è strano e complicato, tutto concentrato intorno ai soldi con un potere concentrato in poche mani. Il mio modo di vivere è diverso, ho un carattere forte e principi personali, posso fare a meno del calcio».
Ma non dei ricordi e neanche dei sentimenti.
«Quelli restano e per sempre. Sento spesso Andrea Silenzi, che per me è un fratello; parlo con Andrea Carnevale, con Rizzardi, con Venturin e anche a volte con Ciro Ferrara. Vedo, quando possiamo entrambi, Careca. Ripenso a Napoli, alla mia casa di via Petrarca, ai miei amici che mi chiamano tante volte e mi invitano. Era in programma un viaggetto in Italia per marzo, sarei dovuto essere a Gubbio e ovviamente sarei poi stato in quella città meravigliosa che mi ha accolto per quattro anni come un figlio».
Banalmente, o ormai anche ritualmente, Alemao viene accostato alla monetina.
«E so che non è possibile evitare quel riferimento: è scritto nella Storia. Dove però c’è anche altro da andare a leggere: per esempio che quell’episodio, aritmeticamente, è ininfluente, perché seppure non ci avessero assegnato la vittoria a tavolino come avvenne, noi saremmo stati campioni d’Italia, con un punto di vantaggio sul Milan. Non avevamo bisogno di quella decisione, ma c’erano regole precise all’epoca. E io fui colpito».
Però le allusioni continuano: e sono passati trent’anni.
«Non posso farci niente e le dico di più, non me frega niente poi tanto di quello che dicono. Conosco me stesso e so com’è andata. E poi rileggo la classifica e cancello tutte le cattiverie che gratuitamente vengono sparse, cercando di cancellare la memoria: Napoli primo, pure se fosse stato confermato lo 0-0 di Bergamo. Lo scudetto è nostro, lo abbiamo conquistato e meritato e se mi fermo a pensare al gol di Bologna o a quello di Stoccarda o a quelli che feci o alle feste per quei successi, posso soltanto affermare di essere stato dentro una favola meravigliosa».
Dice Sacchi, in un libro uscito di recente in Italia, che lei, incontrandolo a Madrid, nella sede del Real, quasi si scusò per quel gesto…
«Questa è una colossale bugia ed ho il dovere di smentire Sacchi. Non avevo nulla da farmi perdonare, perché io non ho alterato la realtà: il dolore alla testa l’ho avvertito io, il taglio l’ho subito io. Immagino sia complesso dover riempire un libro, si devono inserire argomenti che facciano sensazioni, elementi che possano attirare l’attenzione: ma confesso che pensavo di essere al cospetto di una persona più intelligente. E mi rattrista che non sia così» […]
Leggi l’intervista completa nell’edizione odierna del Corriere dello Sport – Stadio