Da una parte la squadra che il maestro Sacchi ha paragonato al grande Ajax, al Milan di Gullit e Van Basten e al Barcellona di Guardiola. Dall’altra la squadra che più ha mutato pelle dell’ultima stagione. Spalletti e Gasperini sono i due mister più anziani della serie A. Ma sono anche quelli che più di tutti si sono messi in discussione questa estate: il primo ha raccolto i cocci della rivoluzione voluta da Aurelio De Laurentiis, ha preso in mano il nuovo progetto e in meno di tre mesi ha costruito una macchina da gol che in Europa ammirano tutti. L’altro, Gasperini, è invece tornato al passato, come se fosse la cosa più semplice e scontata al mondo: addio allo spettacolo e bentornato calcio all’italiana, ovvero difesa blindata in attesa di saltare addosso all’avversario al primo errore, tattica, baricentro abbassato (e non di poco). Due allenatori, insomma, che pur mutando, sono riusciti a tenere in alto i propri club. Con il Gasp che ha quasi rinnegato il suo passato e la sua storia, pur di far risorgere l’Atalanta.
A vederla giocare, nella propria metà campo, è difficile pensare che sia la stessa Atalanta. Un modulo tattico distante anni luce da quello che ha fatto la fortuna del Gasp negli ultimi anni. L’Atalanta di Gasperini si è fatta ammirare per un gioco offensivo fino ai limiti dell’autolesionismo. Baricentro alto, pressing uomo su uomo a tutto campo. Quest’anno, la metamorfosi, con il ritorno della mentalità difensiva che sembrava lontana dalla visione di Gasperini. Vince senza dare spettacolo, vince dopo aver fallito lo scorso anno persino la qualificazione in Europa League. La peggiore dell’era del tecnico piemontese. Peraltro sembrava davvero la fine di un ciclo, con l’ingresso dei soci americani nella società e l’apparente ridimensionamento del patron Percassi. Tutto falso. L’Atalanta è mutata ma è tornata a vincere. Non c’è niente che racconti meglio la nuova identità dell’Atalanta che i gol che ha segnato finora: appena 18. Solo la Roma segna meno tra le squadre in cima alla serie A. Ed è un dettaglio, questo, che dice tutto nella nuova era di Gasperini: nel 19/20 ha segnato 98 gol in Serie A ne 90 nella stagione successiva. «Perché – era il credo di Gasperini – Se vuoi vincere devi segnare». Ma la svolta è lì dietro: visto che nessuno prende meno gol dei bergamaschi: 8.
Se a Napoli è stato De Laurentiis a chiudere con il passato, a Bergamo la rivoluzione è stata condotta da Gasperini che ha voluto tagliare con i vari Pessina, Freuler, Ilicic, Gosens, chiedendo l’arrivo di calciatori giovani e in linea con quello che aveva in mente di fare in questa stagione della ricostruzione. Un maestro anche lui. D’altronde, non è un caso che Juri, Thiago Motta, Palladino e ora Bocchetti al Verona sono considerati i suoi discepoli. A lui, magari, non farà piacere perché significa sentirsi vecchio. Ma Gasperini (64 anni) e Spalletti (63 anni) saranno magari i più grandi sulla carta di identità ma hanno lo spirito dei giovani, pronti a mettersi in discussione e a lanciarsi in nuove avventure. Non è un caso che comandino loro due, il Gasp e Lucianone. Hanno tutti e due trovato linfa vitale da questi talenti da forgiare: da una parte Kvara, Kim, Raspadori e dall’altra Lookman, Hojlund, Soppy, e Ederson dalla Salernitana e le primizie del vivaio di Zingonia, Okoli e Scalvini. Diamanti grezzi da levigare e i due si sono scatenati. Con strategie diverse: il Napoli è uno spettacolo con calciatori universali capaci di coprire più ruoli, l’Atalanta è un ritorno al vecchio calcio tattico, pieno zeppo di pragmatismo. Ecco perché è una sfida molto particolare tra due giganti del calcio italiano, capaci di rimettersi in discussione. Come se fosse una cosa scontata. E non lo è.