È l’Olimpico la sede di una staffetta significativa, calcisticamente parlando. Dove potrebbe essere iniziato un ciclo, quello della Roma, ed essersene concluso un altro, quello del Napoli. All’Olimpico si vede, come mai prima di ieri, una squadra che cresce e una che declina. Una flessibile, capace di adattarsi all’avversario e di cambiare gioco secondo le indicazioni dell’allenatore, e una rigida, che cerca di replicare un gioco sempre uguale e si accorge di averlo dimenticato. L’alba giallorossa è un crescendo di chiarezza tattica, di geometrie acquisite, di fiducia e maturità dei singoli. Fa da contraltare al tramonto azzurro, in cui gli automatismi si spezzano, ciascuno inizia a sentirsi solo in mezzo al campo, la fantasia e l’agonismo si voltano in cupa depressione. Una partita non vale un campionato, ma questa partita parla al futuro dei due club. E racconta una Roma che, a dispetto degli infortuni, ha maturato alcuni punti fermi: una discreta organizzazione difensiva, grazie all’impiego di Mancini nel ruolo di libero avanzato con arretramenti alla De Rossi; un attacco che segna e fa segnare, un centrocampo duttile, dove chiunque giochi è in grado di interpretare le indicazioni di Fonseca. Se n’è avuta prova ieri tra la fine del primo tempo e l’inizio del secondo, quando, per sottrarsi alla pressione del Napoli, Veretout, Pastore, Kluivert e Zaniolo hanno spostato all’unisono la linea d’azione di dieci-quindici metri in avanti e hanno annichilito psicologicamente gli azzurri con un pressing alto simultaneo. Non è un caso che, in questo armonico sistema di gioco, il talento di Zaniolo sia sbocciato, mostrando tutti i numeri del campione capace di fare la differenza.
Contro una simile strategia tattica, il Napoli non ha una contromossa. Perché a centrocampo è evanescente. Manca un regista classico, come lo fu Jorginho. Zielinski e Ruiz invano cercano di surrogarlo, senza averne le caratteristiche. L’assenza di Allan indebolisce un’interdizione già fragile. L’idea di giocare con il 4-4-2, riservando a Callejón e Insigne il ruolo di centrocampisti esterni, si rivela un azzardo maggiore del 4-3-3 di sarriana memoria. La sensazione è che l’allenatore consideri la rosa di cui dispone inadeguata a ciascuno dei moduli che è solito praticare. E non si può dargli del tutto torto, visto che nessuno dei sette attaccanti di cui Ancelotti fa uso a larghe mani, ieri certamente esagerando, può restituire al Napoli l’equilibrio perduto. Se in difesa si sbaglia sempre di più, è anche perché l’assenza di filtro sulla mediana scopre due centrali non proprio complementari e in forma non ottimale. Di certo Manolas ha sbagliato, lasciando che, mentre gli era di fronte, Zaniolo tirasse senza neanche spostare la palla. Ma c’è da chiedersi che ne sarebbe della stagione se il Napoli non avesse un portiere straordinario come Meret.
Abbiamo fin qui sostenuto le scelte di Ancelotti, perché una squadra rinnovata merita tempo per dare il massimo. Però dopo undici giornate, e al netto di qualche grave errore arbitrale e della squalifica da lui ingiustamente patita, la regressione del Napoli è un dato certificato: non tanto dagli undici punti di distacco dalla Juve, quanto dal possesso palla drammaticamente crollato, a prova di un’incapacità di imporre il gioco. O Il tecnico tira fuori dal cilindro della sua esperienza un’invenzione che si fa fatica a immaginare, oppure il Napoli non sarà più una squadra da vertice. Anche perché da oggi Ancelotti dovrà fare i conti con l’umore del suo spogliatoio, tanto più a pezzi quanto più la classifica tradisce le aspettative del presidente e della piazza. Per tutto questo la tappa dell’Olimpico potrebbe segnare un avvicendamento sull’asse Roma-Napoli.