Alla fine più del Granada e dei due suoi gol, vince la noia. Una noia che scende in campo col Napoli, al posto del Napoli. Cala come se fosse nebbia e si impossessa della squadra di Gattuso. Almeno con la Juventus c’era stata la logica dell’efficienza, invece con il Granada zero: gol, gioco, identità. Pesa l’assenza di Hirving Lozano, il Napoli misura il vuoto della sua vivacità, e man mano in quel vuoto cadono Elmas, Lobotka e Osimhen. Fabian Ruiz è un naufrago, che vaga senza mai diventare nemmeno lontanamente il seminatore di gioco che era, una vita fa. Insigne è un alone che ogni tanto, distrattamente, tira in porta. Zielinski che sembrava dovesse rovesciare gioco e partita entra per tirare alto, tirare, poi arrendersi, in una decrescita infelice del Napoli, che si contrae, sovrapponendosi alla noia, giocando gli ultimi minuti all’arrembaggio come se tutto avesse un seguito, invece torna a casa con due gol evitabilissimi difficili da recuperare.
Nella grande gabbia di noia che giustifica le nuove generazioni che non riescono a vedere una partita intera e alimentano il dibattito su durata e cambi di regole, c’è lo smemorato Mario Rui, un calciatore che a tentoni cerca di recuperare quello che non sa di possedere, divenendo un calciatore kafkiano, che alla noia e al buio aggiunge un tocco di grottesco. Mentre Rrahmani e Maksimovic, lavorano nel comico, una comicità fisica, fatta di scivolate e ricerca surrealista.
È vero che prima della noia del campo e dell’inguardabile partita, ci sono gli infortuni che pesano, e che si portano dietro l’abitudine di modulo e conoscenza, ma il Napoli davvero sembra involversi ogni partita di più, ormai somiglia a una alice che uscendo dall’acqua fa il pallone disegnando un cerchio nell’aria. Va bene che è una squadra lunatica alla quale pure ci si abitua, ma ora volteggia nell’imprecisione e insegue l’assenza, producendo noia. Tra un reparto e l’altro c’è lo spazio e il tempo per una speculazione edilizia, senza aggiungere il comico spaventato guerriero Meret, già portiere del miracolo juventino, che ubbidendo ai comandamenti estetici sul due a zero di svantaggio palleggia per costruire dal basso l’azione, in una utopica Salida Lavolpiana. E ci vuole la flemma di Bakayoko per accelerare e capire che tocca lanciare contro i comandamenti che si possono dare, e attuare, ma non al novantaquattresimo cercando un gol che cambierebbe tutto.
Se è commovente come Rino Gattuso, nel suo cantiere, continui a cercare una possibilità e anche a giocare rappandoci sopra la formazione, in un refrain che porterebbe all’esasperazione persino Moby e Peppiniello di Capua, è anche vero che se il più delle volte vince la noia, soprattutto con diverse assenze che sommate fanno una emergenza, servirebbe un ricorso alla semplicità, almeno provvisoria, una tregua alla Ranieri che c’ha vinto una Premier con la semplicità: palla a Vardy e via così. Palla a Osimhen e via così, sperando. Poi, certo, Osimhen ormai è in una fase Zaniolo senza madre per fortuna, fa più discutere di quello che fa fuori dal campo che dentro. In campo è un inseguitore di palle che erano sue, ma che gli passano accanto come gente per strada. Infine, tutto questo non diventa mai regola empirica, tutta questa somma di errori che porta al dominio della noia, non diventa mai occasione per rimediare. Dei giocatori che continuano a remare barche contro corrente risospinti senza posa nel passato, parafrasando lo scrittore e giocatore Francis Scott Fitzgerald che, però, beato lui, amava il football.