«Non sono un maestro, non posso dare lezioni a nessuno». Eppure l’Europa conosce adesso un’altra Italia, quella del Napoli. Ed è merito di un allenatore di 63 anni che stravolge ogni tipo di retorica legata al passato e porta per mano il nostro malandato calcio verso il futuro. Una squadra rivoluzionata dalle scelte di questa estate e che Aurelio De Laurentiis ha voluto affidare a Luciano Spalletti. Poteva anche non farlo. Ha scelto lui di tenere Lucianone con sé. E Spalletti è rimasto contento, al di là del contratto, che a questi livelli non è mai una catena. Si va avanti solo se tutte le parti sono felici. E Spalletti lo è sempre stato sulla panchina del Napoli. Ha condiviso molte delle scelte fatte. E anche quelle che magari non gli sono piaciute, se le è fatte piacere. La squadra lo adora, pende dalle sue labbra: ha un controllo totale delle teste e dei sentimenti dei suoi giocatori. E anche questa scelta di continuare con Spalletti è risultata vincente per De Laurentiis, come tutte le altre in questi mesi che il patron azzurro ha passato quasi a nascondersi, per evitare contestazioni. La settimana dopo il ko con l’Empoli, De Laurentiis ha gettato le basi per questa straordinaria stagione: ha parlato col tecnico, gli ha dato fiducia illimitata, lo ha invitato a ignorare i sussurri che parlavano di chissà quale voglia di chiudere il rapporto. Tant’è che Spalletti poi è sempre stato al suo fianco anche negli eventi con gli sponsor. Anche se non gli era dovuto. In quella settimana dopo Empoli è nato questo Napoli. Da allora gli azzurri hanno vinto 13 partite e pareggiato appena due. Ed è bene non dimenticarlo, questa squadra è figlia di quella, della semina fatta da Spalletti nei mesi passati. Senza Osimhen e con Raspadori, ecco un Napoli che riempe il campo di costruttori e attaccando con il gioco più che con punte di ruolo.
Per capire bene il momento, basterebbe sentire la parola chiave del post-Ajax all’interno dello stadio che porta il nome del profeta del gol, Cruijff: Cremonese. Tutti erano lì già a pensare all’impegno di domenica. Un chiodo fisso. C’è stato un tempo in cui al lunedì Luciano Spalletti saltava in groppa a un trattore e arava la terra, perché il lavoro contadino è nel suo Dna, ce l’ha nel sangue. E lui ne va fiero, come pure ha mostrato nello speciale di Dazn. Se uno diceva che era un «allenatore contadino», lui era contento. Poi gli anni passano e ti cambiano, arrivano nuove sfide. Ma poi alla fine quel metodo di lavoro lo porti sempre dietro con te. Ed è per questo che fatica a dire che ha dato lezione nella terra del calcio totale. Il suo Napoli è fatto di semina e di attenzione. Nereo Rocco fu un maestro del contropiede. A chi gli disse, un giorno, vinca il migliore, lui rispose: «Speremo de no». Spalletti no: vuole vincere col bel gioco, lo pretende, vuole il dominio e mettere in un angolo gli altri (a quelli dell’Ajax non è piaciuto che il Napoli non abbia smesso di infierire e a fine gara non hanno voluto scambiare le maglie con gli azzurri). Alla base di tutto c’è il lavoro-contadino: quello duro del pre-campionato, poi quello tutti i giorni a Castel Volturno. I ragazzi di Amsterdam sono diventati l’enciclopedia vivente del calcio italiano moderno, appagamento assoluto per gli integralisti dello spettacolo puro dove la tecnica è soprattutto velocità applicata, senso del tempo, libera felicità in movimento. E con attacchi dinamici senza mestieranti d’area. Si gode il momento e non pensa a quello che sarà, Spalletti. Il Napoli ha fame di scudetto ma pure Luciano è convinto che sia arrivato il momento pure per lui di vincerne uno. Non ci è mai riuscito, anche se con la Roma ci è andato assai vicino. E la parole d’ordine è già da ieri una sola: Cremonese.