Adesso che il Napoli attraverso i suoi movimenti crea geometrie, che ogni azione è una vertigine di gesti, e che ogni spazio ha una impalcatura di pensiero, è giusto parlarne con un grande artista come Mimmo Paladino. Pittore, scultore, incisore, ma soprattutto uno dei pochi ad avere un linguaggio proprio, radicato, non artefatto. Una forza della natura, che diventa segno, contraddistinguendosi. Fuori dai meccanicismi della riproducibilità, oltre la banalità dell’ideologia, Paladino rappresenta la libertà di essere se stessi, senza condizionamenti di tempo. Capace di elaborare una risposta singolare, impeccabile, includente. L’uomo adatto col quale ragionare del Napoli e di Napoli. Il creatore della più bella area di rigore italiana: l’Hortus Conclusus, a Benevento. Di un pallone in ceramica col nome dei suoi eroi calcistici: da Meazza a Charles; di una porta che guarda verso l’Africa a Lampedusa: luce rovesciata e polvere del dolore; ma soprattutto della Montagna di sale che fece prendere coscienza alla città delle sue potenzialità. Paladino è un dis-velatore, un borgesiano immerso nel tempo della postmodernità più recente.
La squadra di Maurizio Sarri, pittoricamente, a cosa le fa pensare?
«Piet Mondrian più Jackson Pollock con una perplessità».
Che perplessità?
«Napoli è una città insospettabile, che ha bisogno di un solista sempre, un risolutore. Ben venga l’organizzazione sarriana, che però rimane una eccezione, potrà anche vincere e io sarò contento, ma alla fine, dopo la redistribuzione dell’eroe in undici rivoli, è al solista che si tornerà, alla “retorica” dell’eroe solitario».
Ci sta dicendo che non si può prescindere da un Maradona?
«Sì e no. Che vuole da me, sono legato al suo scudetto, alla sua vittoria, e secondo me anche Napoli, che tende a selezionare, da San Gennaro a scendere. Negli ultimi anni ha avuto molti Maradona».
Tipo?
«Da Eduardo a Bassolino, da Lucio Amelio a Sarri. Ecco, manca un Sarri che diventa sindaco o governatore. Manca una geometria dell’equilibrio. Mancano delle serate come ci sono a Londra, dove senza timore ogni giorno si recita Eduardo riconoscendogli lo status di Shakespeare».
Per lei Napoli non deve diventare Berlino, Rio de Janeiro, Buenos Aires o New York?
«Per me Napoli ha una storia differente da queste città. Ha un carattere forte che le permette di sopravvivere a tutto. È imprendibile. Ha l’unicità di una plebe illuminata e l’attenzione di una aristocrazia verso il basso. È una città illuminista e allo stesso tempo pagana. Una contraddizione continua. Per dire, non ha la svagatezza drammatica né gli assiomi molli di Rio de Janeiro, per citare una città che conosco bene. E per tornare a uno dei Maradona che citavamo, quando c’era Amelio Napoli stava alla pari di New York, e Warhol mica ci veniva perché era amico suo, ci veniva per un fascino che prescindeva e che la città conserva nonostante la facile svendita ai turisti, il compiacimento e i corni».
Torniamo alla squadra, le dico i nomi dei calciatori e lei li associa a dei pittori e/o delle sensazioni. Cominciamo da Marek Hamsik.
«È Goya, soprattutto quando esulta, urla».
Reina?
«Un Luca Giordano, quando apre le braccia: un gesto di appartenenza».
Sarri?
«Picasso».
Insigne?
«Armando De Stefano».
Callejon?
«Un Fujente, che da Caravaggio arriva a Hemingway di “Morte nel pomeriggio”».
Koulibaly?
«Direi Beethoven, la quinta, per l’irruenza».
E Mertens?
«Ancora un musicista più di un pittore: Erik Satie. Ma per lui, per come rifà certi gesti, voglio raccontare una storia. Anni fa Ferdinando Scianna fotografò a una processione un uomo che si stava spogliando, sembrava la luce che si scrollava dalla carica del buio. Uno scatto d’istinto. Solo dopo ci accorgemmo che quel gesto, c’era in un quadro di Piero della Francesca: “Il battesimo di Cristo”. Il più gelido e marmoreo dei nostri pittori, usciva dalle proprie regole per catturare un gesto, che poi veniva ricatturato da Scianna in foto. C’ho ripensato sul gol di Mertens alla Lazio, che rifaceva Maradona senza conoscerlo».
Il gesto al di là del tempo?
«Certo, pensi a Boccioni e all’uomo che corre, sta nelle regole del Futurismo, ma allo stesso tempo le scavalca.
Ecco, proviamo a scavalcare la storia e la geografia: lei ha posizionato una porta a Lampedusa, ha mai pensato di posizionarne un’altra giù al Nord?
«Sì, magari prima dell’ultimo iceberg, anzi no, mettiamola a Oslo, in omaggio a Munch».
Mettiamo, e se in mezzo l’Europa fosse un grande campo, lei con quali artisti sfiderebbe il tempo? Ovviamente con un 4-3-3 sarriano.
«Vediamo. Michelangelo in porta. Linea difensiva con Pontormo, Brâncusi, Kounellis, Raffaello. Centrocampo con Manzoni, Duchamp in mezzo e Fontana. E in attacco: Picasso e Burri sui lati e Caravaggio nueve a centro».
Allenatore?
«Vasari».
E in panchina?
«Turner, Fellini e Tarkovsky difensori. Rauschenberg Pollock, Borromini e Barragán tra centro e attacco».
Sa che Picasso regalava quadri a Puskás per i suoi gol nel Real Madrid, lei a chi li regalerebbe?
«A Sivori, un idolo della mia infanzia».
Lei ha giocato?
«Poco e male, ero un cattivo terzino. In compenso gioco molto bene a bigliardino».
Che numeri preferisce?
«Dispari. E poi sui numeri sto facendo un film, molti anni dopo don Quijote, si chiama: “Ho perso il conto” ci gioco con i numeri da Carroll a Joyce, con Haber, Rubini e molti altri. Senza romanticismo».
Che le ha fatto il romanticismo?
«Ha messo l’arte su una dimensione dove tutti si sentono in dovere di dire qualcosa».
Che cosa è la bellezza per lei?
«Quello di cui non capiamo il perché, o quello che non ha bisogno di molta roba».
Perché le piace il calcio?
«Come la tela ha bisogno di geometria. Anche quando non sembra come le macchie di Pollock».
I gesti che la fanno impazzire.
«Uno è la macchia di Pollock, lui non tocca la tela. L’Ulisse di Joyce. Le carrellate di Tarkovsky. Toscanini proprio per l’assenza di romanticismo, e su tutti Glenn Gould che scala il pianoforte, appollaiato sulla tastiera: un sole al tramonto».
From: Il Mattino.