Capitano del Napoli dei trionfi ma non solo. Anche ispiratore di quel magnifico progetto che Corrado Ferlaino fece diventare realtà dal 1985 con due dirigenti (l’esperto Italo Allodi e il giovane Pierpaolo Marino) e un allenatore (il promettente Ottavio Bianchi). «Sia stato il gioco o i risultati, marchiai a fuoco la società portandola ad essere rispettata», ha scritto Diego Armando Maradona nell’autobiografia Yo soy El Diego, l’unica autorizzata dall’ex campione. Ci sono tante pagine dedicate al Napoli, la squadra in cui ha giocato di più nella sua carriera, quella che avrebbe voluto lasciare per il Marsiglia nel 1989, assicurando ancora oggi che Ferlaino (l’ingegnere farà gli auguri di buon compleanno al campione più amato attraverso il figlio Diego junior) gli aveva promesso la cessione, salvo comunicargli il cambio di programma sul prato dello stadio di Stoccarda dopo aver vinto la Coppa Uefa.
Maradona era sbarcato a Napoli perché – confessa nell’autobiografia – «avevamo bisogno di un affare, con i numeri stavamo a zero». I dollari del contratto col Barça e degli accordi pubblicitari bruciati dalla Maradona Production, allora governata da Jorge Cyterszpiler. «Perché non andai alla Juve, al Milan, all’Inter? Perché l’unica squadra che fece un’offerta fu il Napoli». Di cui Diego niente sapeva. «Scoprii dopo il mio arrivo che aveva rischiato la retrocessione in serie B negli ultimi anni e infatti sembrava proprio una squadra di serie B: quanto soffrimmo al debutto in Coppa Italia contro un avversario di serie C». Ricorda il colloquio con Ferlaino e il primo suggerimento: Renica, il difensore della Sampdoria. Maradona disse al presidente «di comprare tre o quattro giocatori e vendere quelli che la gente fischia. Il suo termometro deve essere questo: quando io passo il pallone a qualcuno e lo fischiano, ciao. Altrimenti cerchi di vendermi perché io, così, non rimango». E, dopo il libero Renica, il bomber Giordano. E poi un’altra punta, Carnevale. Dopo la rivolta di maggio 88 contro Bianchi, il capitano suggerì il centrocampista Batista, campione del mondo con l’Argentina, però Ferlaino e Moggi puntarono sul brasiliano Alemao.
Negli stadi il Napoli era insultato. Cori razzisti, ricorda il capitano, «per timore: non capivano come dei poveracci del Sud si stessero prendendo una fetta di quella torta». Il Napoli dei campioni – ricorda Diego con orgoglio – conquistò «una vittoria diversa da qualsiasi altra, anche dal Mondiale. Perché il Napoli lo avevamo fatto noi, dal basso, da operai. La gente cominciava a capire che non bisognava avere paura, che non vinceva chi aveva più soldi ma chi lottava di più». E chi aveva Maradona, definitosi «il capitano della nave» guidata al trionfo anche oltre confine in quell’89 in cui fu conquistata la Coppa Uefa dopo aver battuto i colossi tedeschi del Bayern e dello Stoccarda. Della sera della semifinale a Monaco di Baviera si ricorda, trentun anni dopo, ancora lo show prepartita di Diego, con i palleggi sulle note di Live is life. Anni dopo il medico argentino Alejandro Paoletti rivelò il sorprendente risultato di una ricerca sulle ansie dei bambini: «Vedere quel video è stato il migliore modo per calmarli».