Davanti al tecnico dei partenopei una sola strada: conquistare il pass per la Champions. Sedici gare per salvare la stagione e confermare lo status europeo del club
Nonostante tutto, c’è ancora un futuro: in quindici partite (più una), la Champions è un orizzonte da afferrare, è la zattera sulla quale andare a riparare, è un caveau dentro cui c’è vita, eccome, perché ormai in questo calcio rinchiuso in una bolla, la via dell’oro (e del benessere) conduce inevitabilmente là dentro. In un mini-campionato tutto da giocare, senza l’ansia (?) dell’Europa League, con lo sguardo sorridente per essersi ritrovato fuori dall’emergenza, l’unico impegno serio che Gattuso si ritrova addosso – elementare, Watson – gl’impone di vincerne tante, qualcuna in più di chi gli sta davanti, e di sbagliare poco, evitando di lanciarsi spericolatamente in un laboratorio in cui scorgere soluzioni alternative improbabili o complicate, la difesa a tre o Elmas esterno basso e riscoprire una normalità perduta.
Le otto sconfitte in campionato (che con le Coppe diventano dodici) rappresentano non solo un gap aritmetico ma anche materiale da riflessione su questa annata pazza, nella quale chiunque ha pagato un prezzo carissimo al Covid o agli infortuni (traumatici e muscolari) e però la stagione degli alibi non consente né proroghe, né ulteriori contorsioni dialettiche: il Napoli è in ritardo, pregiudizievole ma non irragionevole, e per lasciarsi alle spalle sei mesi pieni di contraddizioni e anche di enigmatiche interpretazioni tattiche, ha semplicemente una sola scelta, affi darsi all’abbondanza del talento di cui dispone, fonderlo con gli equilibri spesso spariti, sfruttarlo seguendo la natura di una squadra che, nonostante le assenze che ancora la soffocano, ha valori dai quali è rimasta distante.
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