Ci vorrebbe qualcuno che anche nello spogliatoio, in certi momenti, anche se non cresciuto nella culla del settore giovanile azzurro, incarnasse lo spirito del club. Ecco, l’impressione dietro alla scelta autolesionistica del gruppo degli azzurri ci sono delle scelte fatte da De Laurentiis nel corso degli anni di rinunciare a personalità forti all’interno del gruppo. È una delle tante anomalie di questo club esposto a tanti refoli e vittima di agguati da ogni direzione, pure dai presunti amici, intrattabile, come testimonia la squadra, consueto diagramma impazzito di ascese e cadute. Sotto questo aspetto, in dodici mesi, lo spogliatoio ha fatto a meno di 4 leader che, in un modo o nell’altro, avevano in pugno le redini del Napoli: Jorginho, Reina, Albiol e Hamsik. Senza che nessuno prendesse il loro posto. Lo avrebbero potuto fare uno tra Callejon o Mertens, ma si sono tirati fuori quando hanno capito che l’avventura a Napoli era agli sgoccioli. Terminata molto prima di mercoledì scorso.
«Leader non si diventa: si nasce». Nessuno tra gli azzurri è nato leader. Forse per questo c’è chi spinge per l’ingaggio di uno come Ibrahimovic, capace in poche ore per carattere e tutto il resto di prendere in pugno tutti. La prima grave perdita è stata quella di Pepe Reina, ovvio molto condizionata anche dalle relazioni pericolose fuori dal campo accertate dell’inchiesta della Dia. Ma lì, nello spogliatoio, finché c’era lui era il capo incontrastato. E non solo del gruppo degli spagnoli. In campo e fuori è stato a lungo il punto di riferimento per tutto e tutti: pronto a mostrare il petto sia nelle questioni societarie sia quando c’era da fare discussioni in campo. Non a caso aveva un nomignolo che era la sintesi perfetta: «il sindacalista». Si diceva che Pepe fosse un portiere che parava col carisma più che con le mani. Quando il carisma si offuscava e qualche avversario lo insultava facendogli gol, Pepe si arrabbiava come un ragazzino nelle partitelle per strada. Quando il Napoli vinceva, saltava e ballava come il più impazzito dei tifosi. «Era già pronto a fare l’allenatore quando era al Bayern», confessò Pep Guardiola. «Un uomo vero ed un leader vero, ci mancherai», lo salutò Marek Hamsik l’estate scorsa. Lui, Marekiaro sarebbe andato via pochi mesi dopo. Altro pezzo del muro umano. Lui capitano vero, magari non capopopolo come Reina. Il suo attaccamento al Napoli si è sempre espresso attraverso il calcio, la sua leadership si è manifestata nei no alle offerte recapitate dal Milan e dalla Juventus. Lo slovacco sapeva come e quando parlare, aveva un’intelligenza vivace, era il punto di contatto e il tramite tra il gruppo storico e i nuovi. Anche quando Sarri gli disse che avrebbe giocato spesso non più di un’ora, lui non si è mai lagnato delle sostituzioni. Anche per rispetto al calciatore che entrava, di volta in volta, al suo posto.
A modo loro, ce ne erano due di figure assai significative: Jorginho e Albiol. Il difensore spagnolo è arrivato a 27 anni a Napoli: Lorenzo Insigne gli cambiò il nomignolo da El Chori a El Patron. Perché ha sempre mostrato grande carisma nella gestione dei momenti complicati. E attenzione anche a Jorginho, sempre tra i primi a organizzare riunioni in vari ristoranti, in modo da fare gruppo anche fuori dal campo. Ecco, sono andati via in pochi mesi tutti. E questo vuoto si fa sentire. In estate, serviva un mercato con l’ingresso anche di uomini-spogliatoio, gente capace di prendersi addosso il peso di tutto. Un Montervino o un Paolo Cannavaro per intenderci. Ma non c’è nessuno.