Mastica il campo, segna due gol, controlla la partita. Lo strapotere di Zambo Anguissa in questa prima parte di campionato (più Champions League) è assoluto, e si è visto sul secondo gol. Le sue partite sono prove di forza, cambia solo l’intensità: a volte è sornione all’inizio, altre alla fine (come in questa col Torino dello sciagurato e incongruo Juric), il dato certo è la sua massima espansione calcistica in questi mesi: forza e ingegno, tecnica e volontà, forse solo nei suoi anni a Marsiglia con l’Olympique era stato così (pre)potente ma senza segnare. Col Napoli impera e segna, domina e contrasta, vigila e ispira, diventando l’anima della sicurezza nel mezzo del campo e anche l’ebbrezza quando lo supera e arriva nell’aria di rigore avversaria con un trotto da ippodromo più che da campo di calcio. Appare ed è irresistibile negli strappi, come nelle arpionature del pallone tra i piedi avversari, e tutto con una calma da bar, senza scomporsi, sciolto, come una divinità che sa di avere ragione. Così mentre Pogba si domanda se abbia uno sciamano meglio del suo, Anguissa dribbla e corre, slalomeggia e si diverte, segna e sorride, soddisfatto dall’incanto creato, dalle gesta riuscite, sia quando salta sui suoi marcatori per colpire di testa, sia quando li salta col pallone sul campo. Aria e terra. Sempre con imponenza, e semplicità.
Al resto, poi, ci pensa il solito Khvicha Kvaratskhelia: dribbling, resistenza sulle gambe, e tiro al limite delle forze, sporco, che segna il terzo gol del Napoli, tanto che il secondo tempo pare un tratto d’autostrada: dritto e monotono. Si potrebbe dire per la contentezza dei nuovi giovani che la partita duri sei minuti: dal sesto al dodicesimo, il tempo dei due gol di Anguissa che tramortiscono il Torino, fanno incazzare Juric e lasciano il Napoli in testa alla classifica. Il primo nasce dallo scambio sulla fascia sinistra tra Mario Rui e Kvaratskhelia, con il portoghese che crossa in mezzo all’area ancora una volta incarnando un terzino inglese, quindi con tempi e misura, giri e centimetri per la testa di Anguissa che si inserisce tra due uomini, vola più in alto e riesce a dare una identità alla palla che evita Milinkovic-Savic come se fosse un fastidio e finisce in porta. È un gol di fisico e scelta, di elevazione e capacità di inserimento, oltre che di lettura dei tempi portoghesi di Mario Rui, che sembra essersi tarato sul libro degli orari dei treni asburgici.
Il secondo è un gol da campo di periferia, perché dopo aver triangolato con Politano a metà campo, Anguissa prende il pallone e corre verso la porta, come ormai accade di rado, non scambia, non guarda gli altri, non si pone il problema di rispettare comandamenti e tattica, ma corre col pallone, libero, e non si stanca, e quando arriva di fronte a Vanja Milinkovic-Savic non si preoccupa di cercare il bel gol, né di dribblarlo, ma lascia partire un destro da ragazzino, forte e persino sgraziato, ma con tutto il pragmatismo delle serie inferiori, senza bellurie, senza nessuna estetica, vuole solo superare il portiere e se fosse possibile sfondare la porta, è un gol selvaggio, antico, lontano, e per questo: bellissimo.
Ci fosse stato il fango sarebbe stato ancora più bello. Un altro calciatore l’avrebbe alzata, lui no, lui sceglie una traiettoria che sembra in bianco e nero, puskásiana, senza premure, che farà impazzire Jorge Valdano appena vedrà il gol. L’assolo di Anguissa, l’epilogo, consegnano al Napoli una nuova possibilità e tante certezze. Il resto sono giravolte per tenere il risultato.