Lilian Thuram non ha smesso di correre e lottare come ha fatto in
campo per 28 anni, dal primo campionato con il Monaco
all’ultimo con il Barcellona, vincendo Europeo e Mondiale con
la Francia. Corre per il mondo perché lotta contro il
razzismo, il primo avversario di quest’uomo nato in Guadalupe,
un nemico ostinatamente sfidato ma non ancora battuto. Il periodo
più lungo della sua carriera – dal 1996 al 2006 – lo ha
vissuto in Italia, indossando le maglie di Parma e Juve. Il suo
primo allenatore è stato Ancelotti, che ha recentemente
aperto il fronte contro i vergognosi cori da stadio, che tormentano
da anni giocatori e tifosi del Napoli. Anzi, un’intera
città.
«Sospendere le partite in caso di insulti»:
cosa pensa della proposta di Ancelotti?
«Una premessa. È importante che ci sia una persona che
dica che tutto questo non si può fare perché il vero
problema è rappresentato da allenatori e giocatori che non
dicono niente per paura di mettersi contro quei tifosi. Loro
guardano e fanno finta di non vedere, manca la volontà di
denunciare. Con un intervento come quello di Ancelotti si prende la
direzione giusta».
Interrompere una partita, come gli arbitri sono stati
sollecitati a fare dalla Federcalcio italiana, è
un’azione utile?
«Se si interrompe una partita per cori razzisti o per
insulti, il calcio si ferma a riflettere. Questo è un mondo
professionistico basato sul business, dunque si può aprire
una riflessione se c’è un intervento così forte
contro un male che non è soltanto di questo settore ma della
società. Il calcio provi a risolvere questa situazione: non
la legittimi con il silenzio».
Come e dove nasce questa vergogna, questa persecuzione nei
confronti di atleti neri ed ebrei o di una squadra
meridionale?
«È una questione culturale. Chi non è oggetto
di atti di razzismo non si rende conto che questa è violenza
pura ed ecco perché non dà peso a certi episodi.
C’è una differenza tra il razzismo per le origini e per
il colore della pelle. Nei confronti dei meridionali che si
trasferivano al nord per lavoro vi era un profondo ostracismo negli
anni 50 e 60: si arrivava a negare l’ingresso in un locale.
Fuori dagli stadi, la società non fa differenza tra italiani
e napoletani mentre ancora oggi c’è chi invece rifiuta
la legittimità, lo status di italiano, a chi è nero.
Io ho giocato tanti anni con Fabio Cannavaro, lo considero mio
fratello. Quando ascoltavo i cori che facevano contro di lui negli
stadi perché era napoletano, gli dicevo che non era giusto e
che non si poteva far finta di niente di fronte a coloro che si
sentivano superiori ad altri e ovviamente non lo
erano».
From: Il Mattino.